SAN CARLO BORROMEO (1538-1584)

Oratorio di S. Carlo – Lissone: dipinto di autore ignoto del ´600 raffigurante S. Carlo tra gli appestati 

 CARLO BORROMEO nacque ad Arona il 2 ottobre 1538, da una ricca famiglia della nobiltà milanese, assurta a posizioni di prestigio nel territorio dello stato grazie alle fortune e alle alleanze matrimoniali guadagnate attraverso l’impegno nella mercatura e nelle attività finanziarie lungo i due secoli precedenti.

 

BORROMEO si impegnò coscienziosamente nei suoi doveri e tenne una condotta irreprensibile sul piano morale. Ma ciò non gli impedì di condividere i gusti e lo stile di vita cari all’elite più prestigiosa della società italiana del ‘500: usufruiva di un flusso di entrate valutabili nell’ordine di diverse decine di migliaia di scudi all’anno, si circondava di uno stuolo di servitori, praticava la caccia come svago preferito, coltivava le arti della musica ed il canto, collezionava libri e manoscritti preziosi, amava riunire nella propria casa prelati e uomini dotti (è del 1562 la fondazione dell’accademia delle Notti Vaticane).
Proprio a partire dal 1562 si moltiplicarono i segni di un disagio che cominciava a fermentare dietro lo schermo del brillante successo mondano. BORROMEO avvertì il richiamo di una dedizione più rigorosa all’ideale cristiano, eliminò dalla sua vita principesca gli sprechi ed i divertimenti inutili. Su questo processo di maturazione influirono sia gli avvenimenti che scandirono il percorso biografico di BORROMEO (particolare risalto viene dato nella tradizione storiografica alla morte improvvisa del fratello maggiore Federico, il 19 novembre 1562, che metteva fra l’altro in discussione le scelte stabilite dalla famiglia in merito alle condizioni di vita e alla carriera professionale degli altri figli), sia gli incontri, le letture e le relazioni che gli andavano suggerendo la strada di una più compiuta fisionomia vocazionale.

Le simpatie di BORROMEO si orientarono verso le personalità ed i circoli religiosi impegnati con slancio più vigoroso sul fronte di una restaurazione della vita cristiana e nella reazione contro la minaccia protestante. Egli rimase affascinato dal metodo educativo messo a punto dai gesuiti, culminante nella pratica di quegli esercizi a cui si manterrà fedele fino al termine dei suoi giorni. La meditazione e lo studio della Bibbia, della tradizione patristica, dei commentatori e dei teologi medievali, attraverso canali che allo stato attuale delle conoscenze è difficile precisare, dilatarono gli orizzonti della sua cultura, accendendo il fervore spirituale che cominciava ad animarla come forza segreta. La familiarità con gli autori della scuola iberica del ‘500, destinata ad intensificarsi negli anni futuri, le fornì un risvolto di attualità e la aprì al dialogo con le forze più creative della Chiesa del tempo.
I dibattiti sul tema delle riforme, durante l’ultima fase dei lavori del concilio di Trento, riconvocato per volere di Pio IV (1562) e sotto la vigile assistenza del cardinale-nipote, contribuirono in maniera determinante a modellare i progetti di quest’ultimo intorno al proprio futuro e alla possibilità di un servizio più diretto alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

BORROMEO decise di farsi ordinare sacerdote (17 luglio 1563), prese ad interessarsi con più sollecitudine dei bisogni della diocesi milanese che fin dal 7 febbraio 1560, risultando allora vacante, era stata affidata alle sue cure di amministratore apostolico. La conclusione imminente del concilio (4 dicembre 1563) spinse verso Roma studiosi, religiosi e vescovi riformatori, avviati a fare ritorno nella loro residenza o chiamati a ricoprire nuove responsabilità, i quali arricchirono con nuove sollecitazioni il quadro delle proposte rivolte a BORROMEO. È il caso soprattutto dell’arcivescovo di Braga, in Portogallo, il domenicano Bartolomeo de Martyribus, autore di un ritratto ideale del vescovo-pastore (lo Stimulus pcistorum) che dovette impressionare vivamente il giovane cardinale in stato di ricerca.

Nonostante la diffidenza dei molti critici e le riserve avanzate dallo stesso zio pontefice, le scelte di BORROMEO si fecero sempre più esplicite. Il 7 dicembre 1563, nel giorno della memoria di S. Ambrogio, si fece consacrare VESCOVO. Il 12 maggio dell’anno seguente fu nominato arcivescovo di Milano e nel corso dell’estate vi inviò come vicario Niccolo Ormaneto, un insigne prelato cresciuto alla scuola del vescovo riformatore di Verona Gian Matteo Giberti. L’Onnaneto aveva il compito di aprire nella diocesi la strada alle riforme, secondo le linee tracciate dal concilio: tenne alla fine di agosto il primo sinodo, iniziò la visita pastorale, pose le basi del seminario, cercò di rimettere ordine nei monasteri femminili, avviò i preparativi per il primo concilio dei vescovi della provincia ecclesiastica di Milano, convocato per la metà di ottobre del 1565. Questa delicata circostanza, che doveva segnare l’inizio di uno sforzo concorde di attuazione dei decreti tridentini nel vasto territorio dipendente dalla cattedra milanese, fu l’occasione del primo viaggio dell’arcivescovo nella sua sede, presto seguito da una missione diplomatica a Trento per conto del sommo pontefice e dal ritorno presso la sua corte. Di lì a breve termine la morte di Pio IV (9 dicembre 1565) e l’elezione del domenicano Michele Ghislieri come successore (7 gennaio 1566) allentavano ulteriormente i vincoli che ancora tenevano legato BORROMEO alla curia romana, consentendogli di dare avvio alla residenza stabile nella diocesi (aprile 1566).

Una descrizione delle linee fondamentali secondo le quali si sviluppò la sua azione riformatrice nel ventennio scarso dell’episcopato milanese deve partire dalla sottolineatura che una preoccupazione costante fu quella di consolidare le strutture del governo della diocesi, tanto nel loro apparato centrale quanto nelle propaggini periferiche. Per questo volle qualificare la cerchia dei collaboratori chiamando presso di sé religiosi ed ecclesiastici capaci da ogni angolo d’Italia; ristrutturò gli uffici e le «congregazioni» di esperti su cui si fondava l’attività della curia arcivescovile; emanò norme dettagliate per regolarne le diverse competenze; disciplinò con particolare premura l’organizzazione e la vita quotidiana della sua «famiglia» di ministri e servitori, modellandola sull’esempio di una comunità monastica. Pose al proprio fianco tre vicari, scelti di preferenza fra i forestieri: il vicario generale, il vicario delle cause civili e quello delle cause criminali.

Un altro ruolo di responsabilità era affidato ai due visitatori generali (che dovevano sovraintendere uno alla città, l’altro al territorio delle pievi), coadiuvati da altri visitatori di rango inferiore, questi ultimi competenti per ognuno dei distretti (o «regioni») in cui era ripartita l’intera superfìcie della diocesi. Alla base della piramide ecclesiastica rimasero le parrocchie, che vennero anzi ristrutturate e potenziate, ma nel medesimo tempo inglobate in circoscrizioni di nuova creazione, che in campagna si sovrapposero alla rete più antica delle pievi e in città coincidevano con la divisione tradizionale delle sei porte. A capo di esse vennero collocati i sacerdoti che davano maggior affidamento, scelti direttamente dal vertice episcopale: erano i vicari foranei nei distretti del contado ed i prefetti in ambito cittadino, chiamati a porsi come mediatori privilegiati fra il centro e la periferia, attraverso il flusso continuo di informazioni, sollecitazioni e proposte che essi garantivano in entrambi i sensi, attraverso la discussione sui problemi comuni nelle periodiche convocazioni assembleali, le visite di controllo nelle parrocchie sottoposte, più stabilmente ancora attraverso le adunanze o «congregazioni», previste a cadenza mensile, dei curati e del clero inferiore di tutto il distretto affidato alla loro tutela. In occasione di queste congregazioni si celebrava solennemente la messa, si pregava insieme, si discuteva sui temi di volta in volta fissati e si concludeva con una modesta colazione comunitaria.

Il momento unificante di tutta l’azione di governo va identificato nel sinodo diocesano, che il concilio di Trento aveva voluto annuale; in realtà, durante l’episcopato di BORROMEO, dopo quello del 1564 se ne tenne un secondo nel 1568, un terzo nel 1572, poi ancora uno nel 1574, nel 1577, e solo a partire dal 1579 la scadenza risultò regolarmente annuale. Preceduto da un’ampia raccolta di informazioni sulla vita religiosa locale, il sinodo vedeva riunirsi per tre giorni, all’interno del Duomo cittadino, una folta rappresentanza del clero di tutta la diocesi, che al termine sottoscriveva una serie di decreti, impegnandosi a garantirne l’attuazione.

Attraverso di essi ci si sforzava di elaborare e ritradurre in forme adeguate al contesto della Chiesa locale la legislazione messa a punto nel concilio tridentino, dalle autorità della sede romana negli anni successivi e in un ambiente più ristretto dai vescovi della provincia metropolitica, colmando le lacune o rispondendo ai nuovi problemi che venivano via via emergendo. Il concilio provinciale, a sua volta, previsto a scadenza triennale dai padri riuniti a Trento, costituiva l’altro momento fondante nella conduzione della diocesi: BORROMEO riuscì a convocarlo nel 1565, 1569, 1573 e infine ogni tre anni fra il 1576 e il 1582.1 decreti stabiliti in questa sede, al pari di quanto avveniva per i sinodi diocesani, erano ampiamente divulgati con l’ausilio della stampa; accumulandosi nel tempo, gli uni e gli altri andavano definendo la fisionomia ideale di una vita ecclesiale disciplinata e severa nelle sue implicazioni, cui ispirarsi nella guida quotidiana del popolo cristiano. Ben presto i materiali di questa legislazione ecclesiastica locale cominciarono ad essere raccolti in serie, accorpati fra loro, ritradotti in formule più chiare ed incisive.

Ad essi si affiancava il flusso inesauribile degli editti, delle lettere pastorali, dei formulari, delle istruzioni e dei regolamenti emanati direttamente dall’arcivescovo o usciti dalla sua cerchia che erano ugualmente divulgati con il ricorso alla stampa e la tecnica dei fogli volanti. Verso la fine del suo episcopato BORROMEO stesso volle raccogliere la porzione più rilevante della normativa prodotta durante gli anni della permanenza a Milano in un’unica pubblicazione (Actó Eccìesiae Mediolanensis, 1582), destinata a conoscere una larghissima e duratura fortuna in tutto il mondo cattolico, testimoniata dalle ristampe e dalle traduzioni che si succedettero fino alla fine del secolo scorso.

Il disegno borromaico di riforma ebbe come chiave di volta il ruolo trascinatore del clero. In quanto ceto qualificato degli uomini sottratti ai condizionamenti della vita mondana dei laici e chiamati ad una più diretta imitazione della perfezione angelica, esso era sentito come il mediatore esclusivo della redenzione ed il tono generale della vita religiosa dei fedeli ne rifletteva inevitabilmente il livello morale ed intellettuale. Da qui l’impegno prioritario per la generalizzazione del nuovo modello di prete tridentino, in uno sforzo condotto simultaneamente su due fronti: da una parte il recupero ed il controllo capillare dei sacerdoti già operanti nelle comunità della diocesi, al fine di elevarne le qualità molto spesso mediocri o del tutto insoddisfacenti; dall’altra la predisposizione degli strumenti educativi atti a forgiare i nuovi ministri di cui la diocesi ambrosiana e quelle limitrofe avevano bisogno, ministri più istruiti nella dottrina e nella cultura umanistica, capaci di assumere compiti di insegnamento e di predicazione, inseriti pienamente nel nuovo clima di spiritualità generato dal risveglio del cristianesimo cinquecentesco. Per una porzione ristretta dei giovani che si preparavano al sacerdozio, si aprivano le porte accoglienti dei primi seminali, organizzati secondo un ordinamento messo a punto dopo la morte di BORROMEO e dato alle stampe nel 1599.

Al seminario diocesano, inaugurato nel 1564, si affiancarono in città, prima del 1580, due collegi minori, che ospitavano i chierici di più limitate qualità, destinati ad un tirocinio prevalentemente rivolto al concreto esercizio della cura d’anime; nel territorio rurale altri piccoli seminari dove erano impartiti i rudimenti dell’istruzione ai chierici nativi del luogo (Somasca, nel 1566, poi trasferito a S. Maria di Celana; S. Maria della Noce, presso Inverigo, nel 1582; forse anche S. Fermo, nella pieve di Incino, di cui si parla in alcune fonti). I chierici più promettenti completavano gli studi filosofici e teologici presso il collegio gesuitico di Brera (1573) e altrettanto qualificata era la preparazione offerta dal Collegio Elvetico, aperto in città nel 1579 per i seminaristi originari delle terre svizzere. Si devono ricordare ancora il collegio di Arona (nel 1572 affidato ai gesuiti) e quello di Ascona, a non grande distanza dai confini della diocesi, eretto da BORROMEO per incarico papale poche settimane prima della morte. Negli ultimi tempi della sua vita BORROMEO si interessò anche dell’avvio di piccoli seminari locali nelle tre valli ticinesi, a Pollegio e sembra anche a Roveredo, ma per il momento tali iniziative non poterono essere coronate da pieno successo.

Nonostante la disseminazione nel territorio di queste scuole clericali, la maggioranza degli aspiranti agli ordini sacri continuò ad essere reclutata con i metodi tradizionali, attraverso l’apprendistato condotto sotto la guida di sacerdoti più anziani ed esperti. Anche per loro, tuttavia, si imponeva ormai il filtro di un severo esame arcivescovile prima dell’ordinazione, così come anche su di essi dovevano rifluire i benefìci degli strumenti di formazione religiosa e di aggiornamento «professionale» ideati o potenziati da BORROMEO: la diffusione dei buoni libri e i manuali specialmente rivolti all’esercizio del ministero pastorale, in modo particolare alla predicazione e alla catechesi, la pratica degli esercizi spirituali, le congregazioni mensili del clero nei distretti della diocesi, le numerose confraternite sacerdotali, i cicli di lezione tenuti da esperti in materie teologiche o casistica morale.

Ben presto si fece comunque strada l’esigenza di poter contare su una milizia scelta di sacerdoti particolarmente capaci ed impegnati, legati al vescovo da un vincolo speciale di obbedienza e disponibili ad assumere le mansioni più delicate nella diocesi, in base all’evolversi delle circostanze. È l’intuizione che avrebbe portato, fra il 1577 e il 1579, alla fondazione della compagnia degli oblati di S. Ambrogio.

Un sostegno prezioso a tutta la gamma complessa delle attività pastorali e di governo venne dalle comunità religiose presenti nel territorio e soprattutto in città, i cui tradizionali margini di autonomia non mancarono ad ogni modo di generare incomprensioni ed attriti in alcuni casi anche aspri. BORROMEO valorizzò le persone e le capacità di richiamo educativo degli ordini già attivi in diocesi. Favorì l’introduzione e lo sviluppo delle congregazioni di chierici regolari che costituivano uno dei frutti più caratteristici del vasto movimento riformatore del ‘500 (gesuiti, 1563; teatini, 1570; i barnabiti erano presenti già dalla prima metà del secolo). Recepì innanzitutto in prima persona le forme di pietà tradizionalmente sostenute dal clero regolare: pensiamo all’invenzione francescana dei sacri monti, alla devozione per la Madonna del rosario, di origine domenicana, alla letteratura edificante attivamente propagandata in tutta la diocesi.

Si manteneva sicuramente più appartata la vita delle comunità monastiche femminili, di cui per altro BORROMEO si interessò sempre con particolare premura. Fin dal primo impatto con la guida della diocesi volle restaurarvi una severa disciplina claustrale, vincendo le resistenze in senso contrario che trovavano appoggio nelle famiglie dell’alta società locale, le cui fìglie nubili affollavano i conventi più qualificati della città e dei borghi. Anche su questo versante la valorizzazione delle esperienze ricollegabili al rinnovamento cinquecentesco della vita cristiana contraddistinse l’operato dell’arcivescovo: BORROMEO caldeggiò la diffusione dell’austera regola delle cappuccine e mantenne un rapporto di particolare predilezione con le angeliche del convento milanese di S. Paolo, legate alla contessa Ludovica Torelli di Guastalla e alla prima generazione dei barnabiti. Anche la stima dimostrata per le confraternite laicali delle vergini di S. Orsola, per quelle delle vedove di S. Anna e per le comunità conventuali che offrivano ricovero a ragazze e donne abbandonate al proprio destino o desiderose di ravvedimento si colloca in questa cornice.

La società secolare nel suo complesso era abbracciata dalla strategia riformatrice del vescovo-pastore. I laici, inquadrati nelle parrocchie e scrupolosamente censiti nei registri dei loro curati, erano chiamati ad accostarsi con regolarità ai sacramenti, a sostenere il fitto calendario delle cerimonie collettive, a ricevere fin dalla più tenera età i rudimenti dell’istruzione religiosa, partecipando alle iniziative delle sempre più diffuse scuole della Dottrina cristiana. L’itinerario educativo doveva prendere le mosse dalla famiglia, con la preghiera personale e in comune, l’edificazione reciproca e l’incitamento degli adulti, raccomandati in modo particolare dal “Libretto de i ricordi al popolo della città, et diocese di Milano”, stampato nel 1578 per i padri e le madri di famiglia, i maestri e i capi di bottega ed i loro lavoranti.

Dalle mura domestiche la professione della fede religiosa era poi destinata a rifluire all’esterno, ad investire la fatica quotidiana del lavoro e l’intera gamma delle relazioni umane, a cristianizzare il volto della società come tale (paradigmatica in questo senso è la polemica contro il carnevale, il ballo, il teatro, le tradizioni festive popolari). Nello sforzo di proiezione verso il «mondo» il clero borromaico articola il proprio richiamo pedagogico adeguandosi alla gerarchia strutturata delle forme di solidarietà corporativa fondate sul mestiere o sulla condivisione del medesimo status sociale, e ancora di più valorizza le popolari confraternite, sia riorganizzando quelle preesistenti, sia promuovendo la diffusione di altre di nuovo tipo, meglio rispondenti agli ideali di una «riforma» della società cristiana in tutta la generalità delle sue espressioni.

Era un disegno ambizioso e suscitatore di un largo impegno di tipo militante, che probabilmente conobbe un sussulto di incisività sull’onda dell’epidemia di peste del 1576-77. Il contagio e i mesi del successivo ritorno alla normalità, se consentivano a BORROMEO di manifestare con ammirevole slancio lo spirito di comunione che lo legava al popolo dei suoi fedeli, mostravano anche i limiti dell’adeguamento ai nuovi indirizzi tridentini, incitando a condurre più a fondo lo sforzo riformatore. La pubblicazione del Memoriale […] “al diletto popolo della città et diocese di Milano” (1579), la fondazione delle confraternite della S. Croce, l’intensificazione della lotta contro il carnevale e forse anche (se si deve prestare fede all’agiografia tradizionale) la radicalizzazione del rigore ascetico su cui da tempo BORROMEO aveva impostato la sua esistenza sono i segni più appariscenti di un desiderio di espiazione e di un’urgenza missionaria che avvertono di non poter essere paghi dei traguardi raggiunti.

L’obiettivo della riforma non era realisticamente perseguibile a prescindere dall’allestimento dei meccanismi di controllo e di repressione degli abusi capaci di garantire la continuità nel tempo dell’obbedienza alle norme emanate al vertice della diocesi. Uno strumento privilegiato in questo senso, che però va reinserito nella trama più larga dei rapporti abituali fra centro e periferia, poggiami soprattutto sulla piramide gerarchica del clero secolare, fu quello delle visite: visite dei vicari foranei, dei visitatori di curia, a scadenze più diradate visite generali alla diocesi, compiute direttamente dall’arcivescovo o tramite suoi delegati (preoccupazioni e tecniche analoghe regolarono le visite apostoliche condotte per incarico della S. Sede nelle diocesi limitrofe di Cremona, Bergamo, Vigevano e Brescia, fra il 1575 e il 1580).

Alla visita della diocesi BORROMEO riservò molte delle sue energie; a quanto sembra, riuscì a raggiungere tutte le località del territorio una prima volta intorno al 1570 e poi di nuovo dopo la peste; in alcuni luoghi, come le tre valli ticinesi, la presenza dell’arcivescovo fu ancora più frequente. La visita pastorale era un momento emozionante di incontro fra le comunità di abitanti ed il loro pastore, altrimenti diffìcilmente raggiungibile, e insieme l’occasione di una speciale verifica, condotta direttamente in loco, su come venisse organizzandosi la vita della Chiesa ambrosiana in tutta la capillarità delle sue sedi.

Attraverso la raccolta di denunce e lamentele e l’avvio di processi a danno dei sacerdoti indegni o dei laici che risultavano violatori degli interessi parrocchiali e dei precetti ecclesiastici, la visita vescovile poteva anche innescare – al pari di quanto avveniva in quelle compiute dai visitatori di rango inferiore – l’intervento repressivo della giustizia ecclesiastica, un altro degli elementi coscienziosamente riorganizzati da BORROMEO. Per coloro che fossero riconosciuti colpevoli vi erano la minaccia di sanzioni pecuniarie, penitenze pubbliche da scontare, l’interdizione dai sacramenti; nei casi più gravi l’arresto, il trasferimento a Milano sotto scorta armata, la detenzione nelle carceri arcivescovili, l’intervento degli organi giudiziari centrali, magari la condanna a pene come il lavoro forzato sulle galere o l’affidamento al tribunale dell’Inquisizione.

Un settore su cui la vigilanza di BORROMEO si mantenne sempre desta fu quello della minaccia ereticale. Focolai di dissidenza protestante non sembravano più attivi nel territorio della diocesi, ma la propaganda dei libri proibiti, i contatti commerciali con le terre passate alla Riforma e l’infiltrazione di persone dotate di idee sospette erano questioni tuttora aperte. L’opposizione all’eresia non poteva essere circoscritta all’ambito milanese, ma sfociava in un’azione difensiva di più vasto respiro contro tutti i contagi che si temevano dall’esterno, in particolare dalla Valtellina e dai territori elvetici.

Le premure di BORROMEO per fare di Milano il baluardo inespugnabile della cristianità della penisola si accentuarono negli ultimi anni della sua vita, quando ebbero modo di tradursi in una fortunata combinazione di intensi maneggi diplomatici e di attiva presenza missionaria nelle valli alpine a cavallo fra Lombardia e Svizzera attuale. Si ebbero contatti ancora più stretti che non in passato con le autorità dei cantoni e delle comunità soggette agli svizzeri, invii di predicatori e visitatori (emblematico è l’episodio della Mesolcina nel 1583), nuovi viaggi condotti anche personalmente, fondazioni di conventi e collegi: un disegno lungimirante di riconquista che solo in parte potè essere svolto in tutte le potenzialità che racchiudeva.

L’episcopato di BORROMEO, in sintesi, si caratterizza come un risoluto tentativo di ridare vitalità e autorevolezza, dopo un periodo di abbandono e di parziale declino, alle istituzioni ecclesiastiche in tutto il territorio diocesano, ponendo il nuovo clero tridentino al centro di un processo di ricristianizzazione della vita degli individui e dell’intera realtà sociale. Una strategia riformatrìce così congegnata non poteva «passarsi senza qualche burrasca» (BORROMEO ad Ormaneto, 3 febbraio 1565). Essa metteva in discussione le consuetudini di un ampio settore del clero e del mondo conventuale, intralciava i vincoli di interesse che univano i ceti sociali più rappresentativi ai corpi ecclesiastici più potenti e tradizionalisti, si scontrava con lo spirito d’autonomia coltivato dai gestori dei luoghi pii, dagli enti ospedalieri, dai capitoli delle collegiate più prestigiose.

La ribellione dei canonici di S. Maria della Scala alla visita dell’arcivescovo (30 agosto 1569) e la congiura degli umiliati sfociata di 11 a poco nell’attentato alla vita del santo (26 ottobre) sono i riverberi clamorosi di questa sorda contestazione intraecclesiastica. Ma gli scontri e le opposizioni, intrecciandosi con i fenomeni di reciproca intesa e gli elementi di osmosi, coinvolsero forze cospicue dell’intera società civile ed i suoi organi direttivi. Ad innescarli (non soltanto nello spazio ristretto del capoluogo milanese) erano gli interventi capillari della curia e del clero riformatore a tutèla dell’indipendenza dell’istituzione ecclesiastica e dei suoi interessi materiali, lo sforzo di disciplinamento della moralità degli individui, la revisione dei modelli consuetudinari di vita comunitaria, di divertimento, di organizzazione delle relazioni sociali e di rapporto con la sfera del sacro.

Questa conflittualità diffusa cominciò ben presto ad alimentare, ai vertici della vita pubblica dello stato, un confronto spesso aspro di posizioni fra l’autorità vescovile, il senato milanese ed il rappresentante locale della monarchia spagnola (il governatore), che a sua volta coinvolse nel gioco altalenante delle sue oscillazioni tanto le autorità della sede pontifìcia (in alcuni momenti restie a sostenere fino in fondo le scelte più intransigenti di BORROMEO) quanto quelle madrilene. Già alla fine del 1566 esplodeva la controversia sui limiti di azione della forza armata al servizio della curia arcivescovile, aggravatasi l’anno successivo in seguito all’arresto del «bargello» che la dirigeva ed al ricorso dei contendenti a Roma. Nuovi motivi di attrito si aggiunsero con la pubblicazione della bolla In coena Domini (1568), a difesa dell’immunità e dei poteri di giurisdizione della Chiesa.

Gli incidenti del 1569 finirono col portare ad un momentaneo appianamento dei contrasti, sollecitato anche dalle esigenze di coordinamento degli sforzi della cristianità contro la minaccia turca. Ma i rapporti tornarono a farsi tesi negli anni seguenti, dopo l’ingresso del nuovo governatore Luis de Requeséns e in particolare nel 1573. Alle misure limitatrici ed ai provvedimenti repressivi di quest’ultimo BORROMEO rispose con la scomunica, e solo l’intervento moderatore di Gregorio XIII impedì che il conflitto assumesse toni ancora più drammatici.

L’energica ripresa dello sforzo riformatore, dopo la parentesi della peste, riaccendeva i tradizionali motivi di dissidio e rinfocolava le correnti di opposizione. Nel 1578 si potevano inaugurare trattative diplomatiche dirette fra S. Sede e monarchia di Spagna, in vista di una riconsiderazione globale dei conflitti di giurisdizione nei domini iberici della penisola, ma nel 1579 l’aggravarsi della situazione induceva BORROMEO a recarsi personalmente a Roma per riguadagnare l’appoggio cordiale del pontefice; parallelamente uno degli uomini di fiducia dell’arcivescovo, Carlo Bascapé, era inviato in missione segreta presso la corte spagnola (1580), dove riuscì ad assicurarsi la benevolenza di Filippo.

Da quel momento si spense l’ostilità aperta delle autorità milanesi e gli aspetti più problematici dell’equilibrio fra i due poteri, pur rimanendo irrisolti, cessarono di alimentare urti conflittuali. La riconciliazione era probabilmente favorita dai vantaggi reciproci che Chiesa e stato riconoscevano di poter trarre dal pieno ristabilimento di quella solidarietà di fondo fra potere politico e restaurazione del culto cristiano mai venuta meno nel lungo periodo, al di là dei momenti più tempestosi dello scontro.
La convergenza ora ricreata aveva anzi modo di proiettarsi in una comune attenzione ai territori circostanti il dominio milanese, e non è certo un caso che proprio gli anni successivi al 1580 abbiano visto il dispiegarsi dell’attività missionaria della Chiesa ambrosiana nelle valli alpine e nei territori elvetici, zone a cui tanto Madrid quanto Roma e la sede arcivescovile milanese, sia pure per motivi ovviamente non coincidenti, guardavano con particolare interesse.

La morte inaspettata di BORROMEO, in seguito all’accesso di febbri manifestatesi durante un nuovo soggiorno di meditazione presso il sacro monte di Varallo (3 novembre 1584, a soli 46 anni d’età), segnava la rapida chiusura di questi progetti di ampio respiro. Ma era anche l’inizio di una storia nuova, quella dell’affermazione della santità e del valore esemplare della figura di BORROMEO L’agonia e i funerali dell’arcivescovo videro sprigionarsi con intensità commovente il dolore di coloro che gli erano stati vicini e del popolo che aveva imparato ad amarlo come pastore e «padre dei poveri».

La tomba, che si trova nel Duomo di MILANO – dedicata a  S. Maria Nascente, diventò il centro di un culto subito vivacissimo, mentre le immagini stampate e i dipinti, gli opuscoli edificanti, le prime biografie, le voci di apparizioni e di miracoli, la dispersione delle reliquie andavano diffondendo a largo raggio, ben presto al di là dei confini stessi della penisola, la fama della sua persona ed il ricorso ai suoi poteri di intercessione.

Nel corso del 1601 venne avviata la trafila del processo di canonizzazione ed il 1° novembre 1610 il papa lo proclamò santo. Un nuovo impulso vigoroso venne dato alla fortuna del suo culto, che per lunghi decenni, almeno in gran parte dell’Italia nord-occidentale, mantenne intatta la sua forza di devozione largamente popolare.

Se con l’andare del tempo la vitalità del sentimento collettivo tendeva a declinare (ne può essere considerato un segno il fallimento del progetto del sacro monte di Arona, di cui è un residuo il «colosso» inaugurato nel 1698), ben più a lungo esercitò un influsso di rilievo decisivo la suggestione del modello di vita ecclesiale messo in atto da BORROMEO nella sua diocesi e nella guida della provincia metropolitica.

Vescovi e leaders religiosi di tutto il mondo cattolico continueranno a rifarsi, almeno fino al ‘700 inoltrato, ai testi degli Acta Ecclesiae Mediolanensis e alle istituzioni create da BORROMEO.

La sua esaltazione come «tipo» ideale del vescovo-pastore in età post-tridentina si prolunga senza radicali smentite fino ai giorni nostri.

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