LA SALVEZZA CHE CHIAMA

Il Teologo  Dott. Don Sergio Ubbiali

A proposito di indulgenza

Alla fine della settimana scorsa, tra venerdì e sabato, la Chiesa ha attirato i cristiani verso l’indulgenza, cioè al provvido benefico gesto grazie al quale Dio stesso provvede alla totale salvezza dei peccatori.

Ma quale significato possieda dunque Dio per noi, quale sia il suo oggettivo significato per l’uomo razionale e libero costituisce l’interrogativo dal quale nessuno può distrarsi.

Quando si tratta di Dio si giunge al cuore del messaggio della fede, per quanto la travolgente ristrettezza del tempo vissuto da ognuno non permetta la minuziosa coerente analisi delle ragioni in nome delle quali si crede.

In ogni caso vi sono occasioni, e il tempo dell’indulgenza risulta essere una di queste, che dischiudono le opportune condizioni per uno sguardo sintetico su ciò che nel frattempo siano divenuti in quanto credenti in Dio, così da riappropriarsi del come in realtà noi vorremmo essere, da ritrovare con felice chiarezza quanto potremmo riuscire in definitiva a diventare.

Stando alla testimonianza della primitiva comunità cristiana Dio è vicino anzi è sempre, senza distinzioni per nessuno, in stretta conveniente comunicazione con le sue creature.

Il regno di Dio si avvicina, addirittura esso è imminente, pertanto si trova, per così dire, alla soglia dell’esistenza individuale.

Sono le parole pronunciate in prima persona da Gesù, parole ripetute cominciando dall’inizio con affezionata fedeltà tra i cristiani, tanto da trovarle poi trascritte dentro i vangeli. In effetti ai seguaci del Signore, impegnati in maniera altamente fattiva nel corso comune della vita, la dichiarazione è apparsa subito significativa.

L’accenno al regno di Dio ha consentito di osservare la propria storia con meno superficialità: le occasioni vissute da soli oppure con gli altri si identificano con il costante, l’infaticabile accostarsi di Dio a ciascuno.

Le parole del Signore consegnano allora l’appello a togliere via l’indifferenza, ad abbandonare il torpore, ad uscire da quanto impedisce di vedere ciò che propriamente c’è accanto a noi nelle circostanze più consuete.

L’invito è ad aspettarsi Dio, ad occuparci del Signore, riconoscerne la vicinanza proposta mediante i normali rapporti terreni. Tutti abbiamo sentito leggere e ricordiamo senza dubbio bene quanto accade al profeta Elia quando incontra il Signore Dio. Unicamente quando sopraggiunge il «sussurro soave e sommesso», Elia sa che deve coprirsi la faccia con il mantello.

 Quando viene Dio è sempre sommesso, così come del resto il comportamento tenuto da Gesù dimostra: «non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce» è il passo di Isaia che gli viene riferito.

Sulla scia d’un tale riferimento Paolo prospetta per i cristiani un compito importante: imparare a leggere l’avvicinarsi di Dio all’interno del tempo quotidiano, all’interno delle proprie vicende personali. La luce divina è il principio che, non distraendo dagli avvenimenti, orienta il pensiero, motiva la decisione di ciascuno, dando con ciò pieno sapore alle situazioni di ogni giorno.

 In effetti (ma in ciò sta l’insuperabile scoperta del convertito Agostino) Dio si è già reso il vicino dell’uomo prima ancora che questi potesse cercarlo da qualche parte. È la ragione per cui non bisogna distrarsi né venire distratti né tanto meno continuare a restare distratti. Il cristiano non può non distinguersi lasciando cadere una volta per tutte quelle abitudini per le quali l’uomo si ritrova senza attese, mettersi contro con forza a quello stile per il quale il tempo è semplicemente consumato ma mai vissuto.

Questo desiderio, forse temerario nel contesto attuale, appartiene alla piena fede cristiana.

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